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Standard Proposal Valorizzazione del dottorato di ricerca e dei titoli post dottorato per la progressione di carriera dei docenti

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Problema e/o ostacoli

Osservazioni e proposte in merito al progetto di “Buona Scuola” presentato dal governo Renzi.

Scopo di quest’articolo è quello di valutare il progetto denominato “La Buona Scuola”, proposto dal governo Renzi e dal Ministro Stefania Giannini, attraverso una serie di documenti disponibili sul sito ufficiale del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. L’angolo visuale con cui valuteremo il progetto sarà necessariamente parziale e finalizzato sostanzialmente a individuare gli elementi che potrebbero portare a valorizzare le competenze di quei docenti che hanno conseguito il dottorato di ricerca e hanno poi continuato un’attività di ricerca presso le università o altri enti, in Italia e all’Estero.

Non nascondiamo, in via preliminare, che i documenti elaborati dal Ministero suscitano in noi non poche perplessità, a cominciare da elementi linguistici non trascurabili: infatti, abbiamo constatato, con una certa sorpresa, che l’espressione “dottorato di ricerca” ricorre solo una volta, e per giunta per una questione marginale relativa al reclutamento dei docenti (ossia per l’eventuale ripescaggio – al fine del loro inserimento nelle cosiddette graduatorie ad esaurimento - dei cosiddetti “congelati SSIS”, ossia di quegli specializzandi della SSIS che congelarono la frequenza ai corsi universitari di abilitazione per frequentare il dottorato; cfr. il documento 1, § 3); mentre lo stesso vocabolo “università” ricorre soltanto a proposito delle future modalità per la formazione iniziale degli insegnanti. Quello che ci preoccupa, è l’assenza di elementi fondamentali relativi alla riattivazione di una proficua osmosi tra scuola e università e anche di serie intenzioni volte a valorizzare l’attività di ricerca dei docenti.

I documenti insistono, quasi presentandola come un’inedita rivoluzione, sul fatto che in futuro nella scuola sarà premiato “chi lavora di più”, ossia, ad esempio, i docenti che svolgono corsi aggiuntivi (soprattutto di recupero, piuttosto che “di eccellenza”) o che si occupano di questioni specifiche nelle loro scuole. In realtà, si ignora o si finge di ignorare che attualmente le ore e gli incarichi aggiuntivi sono retribuiti, addirittura con la previsione contrattuale di docenti selezionati dai dirigenti e dai collegi docenti a questo scopo (le cosiddette “funzioni obiettivo”), benché da alcuni anni i fondi per finanziare tali attività siano stati progressivamente ridotti. In ogni caso, questa cosiddetta “rivoluzione del merito”, se dovesse venire intesa in base allo slogan “più soldi a chi lavora più ore”, non sarebbe certamente qualcosa di inedito; anzi, si ha perfino il sospetto che, essendo ora diventato più difficile, a causa dei tagli alla spesa pubblica, premiare il lavoro aggiuntivo, si stia facendo il gioco delle tre carte per ridurre gli stipendi, usando i fondi in passato destinati agli scatti di anzianità al fine di pagare ciò che fino a poco tempo fa veniva remunerato con stanziamenti di bilancio ad hoc, poi decurtati fino all’osso.

Ben altra, a nostro avviso, dovrebbe essere una strategia idonea a premiare seriamente il merito, puntando sull'effettiva qualità dell'insegnamento, ovvero sul lavoro di preparazione, di studio, di approfondimento, di aggiornamento e di ricerca svolto dai docenti più motivati e consapevoli (spesso poi fuori dalle mura scolastiche). Senza dubbio si tratta di una strada ardua da percorrere, perché non sempre è possibile valutare in modo oggettivo l’incidenza di questi fattori sulla qualità dell'insegnamento: ma almeno si potrebbe cominciare, riconoscendo un qualche valore, anche economico o in termini di punteggio per vari tipi di graduatorie (ad es. quelle finalizzate alla mobilità), alla partecipazione a convegni, conferenze, lezioni accademiche e corsi di vario livello, nonché alla redazione di pubblicazioni e al possesso di titoli come seconde lauree, abilitazioni, dottorati di ricerca, perfezionamenti, master, borse post-dottorato, assegni di ricerca e, last but not least, il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale a professore associato e ordinario.

Veniamo ora nello specifico ad analizzare alcuni punti dei documenti sulla Buona scuola.

Cominciando con il documento n. 1 (“Assumere tutti i docenti di cui la buona scuola ha bisogno”), si parla di costituire un organico “dell’autonomia”, da cui prelevare docenti non solo per le lezioni in classe, ma anche per gestire “le molte attività complementari all’ordinaria attività didattica”, tra cui lo sviluppo delle eccellenze.

Si parla poi dei futuri concorsi a cattedra (1.4), sottolineando come “nel nuovo concorso sarà diminuita significativamente la percentuale di giudizio legata ai titoli” e “sarà rivisto l’elenco dei titoli ammessi”, dando “maggior peso alla valutazione delle capacità 'pratiche' dell’insegnante, come tenere una lezione o affrontare situazioni concrete”.

Su quest’elemento non siamo del tutto d’accordo, soprattutto perché si trascura che esistono vari ordini e tipi di scuola, in alcuni dei quali sono più importanti queste capacità “pratiche” (ad es. nella scuola primaria), mentre in altri sono più importanti quelle “teoriche” (ad es. nell’insegnamento di matematica e fisica in un liceo scientifico o di latino e greco in un liceo classico).

A proposito della formazione iniziale degli insegnanti (1.8), si ipotizza “un’unica procedura di abilitazione – unica per tutti – basata sulla combinazione di due ‘momenti’”.

“Il primo momento riguarderà la formazione vera e propria, e quindi il periodo universitario. Gli ordinamenti universitari dovranno realmente far sì che chi aspira a diventare docente possa iscriversi, nel proprio ramo di specializzazione – ad esempio lettere, matematica e scienze, ecc. – ad un biennio specialistico improntato alla didattica, a numero chiuso (cui si potrà accedere attraverso selezione rigorosa per esame e per titoli).”

I miei dubbi vertono soprattutto sul fatto che chi sceglierà invece un biennio post laurea triennale non finalizzato all’insegnamento, bensì alla ricerca (anche in vista successivamente del completamento della sua formazione attraverso un dottorato), sarà poi de facto escluso dall’insegnamento nelle scuole. È vero che poi si parla del fatto che chi scoprirà di avere una “vocazione tardiva”, magari dopo anni dalla laurea, potrà “sostenere gli esami caratterizzanti del biennio specialistico – dopo aver però superato le prove per il numero chiuso, che determinerà il contingente e creerà quindi un canale di abilitazione legato al fabbisogno reale, evitando così di tornare a creare in futuro nuove folle di precari”: ma nutro molti dubbi che questo processo potrà garantire sul serio alla scuola i migliori laureati, almeno in certe discipline.

Il documento prosegue spiegando che il secondo momento “consisterà – per coloro che, avendo con successo frequentato il biennio, avranno conseguito una laurea ‘quasi-abilitante’ – in un semestre di tirocinio a scuola. Durante il tirocinio il quasi-abilitato assisterà l’insegnante mentor e contribuirà a svolgere alcune attività nella scuola”.

Anche qui notiamo in realtà una sorta di regresso: a differenza del tirocinio previsto dalla SSIS e dal TFA, non siamo più di fronte a un coinvolgimento dell’università nelle attività formative finali, ma solo della scuola. Questo insegnante mentor poi sarà diverso dal supervisore del tirocinio della SSIS o dal tutor coordinatore del TFA: costoro operavano od operano in regime di semiesonero e partecipano attivamente anche ai processi di ricerca didattica dell’università stessa, cosa che questo docente mentor non sembra fare. Dai documenti sulla "Buona scuola" non si capisce in realtà se codesto docente mentor affiancherà e aggiungerà alla sua attività didattica ordinaria le sue funzioni specifiche oppure se si dedicherà esclusivamente ai suoi nuovi compiti. Nel documento ministeriale, a leggerlo attentamente, si accenna soltanto a una sorta di indennità di posizione, simile a quella dei dirigenti scolastici, ma non quantificata neppure vagamente, almeno per ora. Il che lascia pensare che, per ragioni di contenimento della spesa, il suo orario di cattedra rimarrà invariato.

Insomma, abbiamo l’impressione che vi sia troppo ottimismo quando si dice: “Con questa nuova procedura, il percorso che porta a diventare docenti risulta nel complesso bilanciato, alternando tra livello nazionale e livello ‘locale’, con l’università che offre la formazione necessaria, la scuola che attraverso il tirocinio forma e ‘rilascia la patente’ ai suoi stessi futuri

docenti; e con lo Stato che, attraverso il meccanismo del concorso, assicura un filtro nazionale uguale per tutti coloro che saranno assunti nelle scuole italiane”.

Per quanto ci riguarda, rimarrei del parere di conservare l’attuale TFA trasformandolo semmai in una sorta di master annuale di indirizzo didattico-scientifico, con un congruo numero di ore di tirocinio e una rigorosa programmazione degli accessi; al termine di esso si conseguirebbe l’abilitazione all’insegnamento che diverrebbe conditio sine qua non per partecipare ai futuri concorsi a cattedra.

Inoltre, prevederei la conferma della figura del supervisore o tutor coordinatore, individuando tra di loro una quota di docenti che dovrebbero avere non il semiesonero, bensì l’esonero totale (per un numero di anni da 5 a 10), affidando loro compiti relativi non solo al tirocinio, bensì anche all’insegnamento di corsi universitari con una specifica curvatura didattica. Ovviamente, costoro andrebbero selezionati tra i docenti che siano titolari del dottorato di ricerca (ed eventualmente di ulteriori titoli accademici) e di una documentata produzione scientifico-didattica a livello di pubblicazioni. Si dovrà anche prevedere una remunerazione aggiuntiva, da determinare con gli appositi strumenti normativi.

Anche per le commissioni di concorso a cattedra sarà necessario assicurarne la massima qualità, prevedendo che i presidenti siano o professori universitari o dirigenti scolastici dotati di titoli specifici di livello scientifico-didattico; gli altri due membri dovranno essere docenti di scuola primaria e secondaria titolari della disciplina, già vincitori di concorso ordinario e dotati di dottorato di ricerca e di altri titoli, da seconde lauree a pubblicazioni di rilievo fino all’abilitazione scientifica nazionale. Sarà inoltre doveroso prevedere per i commissari, al fine di assicurare la massima serietà nelle selezioni concorsuali, l’esonero totale dall’insegnamento per tutta la durata delle prove e un compenso adeguato all’impegno richiesto.

Venendo poi al documento n. 2 (“Le nuove opportunità per tutti i docenti: formazione e carriera nella buona scuola”), si insiste su regole nuove, che evitino la cristallizzazione di ruoli e funzioni e valorizzino invece la professionalità dei docenti.

E si sottolinea come la formazione in servizio non debba essere più vista “come un obbligo burocratico nei confronti dell’Amministrazione ma come una reale occasione di crescita personale e professionale”.

Si insiste altresì sul fatto che il “merito” deve “diventare, al posto della semplice anzianità, il criterio principale per l’avanzamento di carriera dei docenti della scuola”.

Tuttavia, quando si va poi a vedere in che cosa debba consistere questo “merito”, si noterà che

in massima parte si tratta di competenze e capacità che dovrebbero possedere tutti i docenti, come la gestione di “classi sempre più multiculturali”, l’integrazione di studenti con bisogni speciali, l’utilizzazione di tecnologie per la didattica, ecc.

Per non parlare della solita retorica pedagogistica per cui dai docenti (2.1) “ci si aspetta inoltre che non insegnino solo un sapere codificato (più facile da trasmettere e valutare), ma modi di pensare (creatività, pensiero critico, problem-solving, decision-making, capacità di apprendere), metodi di lavoro (tecnologie per la comunicazione e collaborazione) e abilità per la vita e per lo sviluppo professionale nelle democrazie moderne.”

Si ipotizza allora (2.2) una formazione in servizio che consenta di “continuare a riflettere in maniera sistematica sulle pratiche didattiche; di intraprendere ricerche; di valutare l’efficacia delle pratiche educative e se necessario modificarle; di valutare le proprie esigenze in materia di formazione; di lavorare in stretta collaborazione con i colleghi, i genitori, il territorio.

Per fare questo, bisogna rendere realmente obbligatoria la formazione, e disegnare un sistema di Crediti Formativi (CF) da raggiungere ogni anno per l’aggiornamento e da legare alle possibilità di carriera e alla possibilità di conferimento di incarichi aggiuntivi (vedi Capitolo 3). Questa formazione obbligatoria non potrà essere calata dall'alto, ma dovrà essere definita a livello di Istituto. Inoltre, la nuova formazione permanente dovrà fondarsi sul superamento di approcci formativi a base teorica, e dovrà essere mutata invece in un modello incentrato sulla formazione esperienziale tra colleghi, attraverso la creazione di una rete di formazione permanente dei docenti. La nuova formazione farà leva su quattro elementi fondamentali. Anzitutto il ruolo centrale dei docenti nel coordinamento, perché un docente è il formatore più credibile per un altro docente. Secondo, la valorizzazione delle associazioni professionali

dei docenti. Terzo, la centralità di reti di scuole per raggiungere ogni docente e l’identificazione di poli a livello regionale, su cui concentrare partenariati di ricerca per l’innovazione continua. Quarto, il ruolo cruciale riconosciuto, all’interno della singola scuola, agli ‘innovatori naturali’, che dovranno avere la possibilità di concentrarsi sulla formazione, e che saranno premiati con una quota dei fondi per il miglioramento dell’offerta formativa che verrebbe vincolata all’innovazione didattica e alla capacità di miglioramento, valutata annualmente”.

In tutto questo notiamo con stupore che le veri assenti sono proprio le università, ossia quegli attori che più di tutti dovrebbero mettere i docenti a contatto con le esperienze più vive della ricerca avanzata e della didattica innovativa. Sebbene si debba riconoscere che all’interno delle scuole ormai operano da tempo docenti non meno titolati dei loro colleghi universitari, che, anzi, in modo pressoché “eroico” riescono a conciliare gli onerosi impegni didattici richiesti dalla scuola con una produzione scientifica di livello ottimale (anche perché la riforma Gelmini ha limitato e in certi casi bloccato il naturale turn over della docenza universitaria, impedendo a molti studiosi di vaglia di accedere alle cattedre di professore associato e ordinario, per non parlare dell’abolizione dei posti di ricercatore a tempo indeterminato). In questo caso si può davvero ritenere che la formazione esperienziale tra colleghi del tipo peer-to-peer possa funzionare adeguatamente. Ma proprio per questo un maggiore raccordo con le università sembrerebbe auspicabile, anche al fine di favorire un rinnovato processo di osmosi e di interscambio tra il mondo accademico e quello della scuola.

Si dice poi (2.3) che bisogna “far uscire i docenti dal ‘grigiore’ dei trattamenti indifferenziati. E, piuttosto, scommettere sulla voglia di decine di migliaia di docenti – già di ruolo o in attesa di averlo, freschi di studi o ricchi di esperienza, che lavorano nel miglior liceo di una grande città o nell’istituto tecnico di un piccola provincia – di tornare, oggi, a investire su loro stessi. La progressione economica (vale a dire ‘l’aumento di stipendio’) dei docenti si sostanzia oggi in un ‘automatismo’ legato solo all’anzianità di servizio sulla base delle “posizioni stipendiali” raggiunte. Per fare questo è necessario ripensare la carriera dei docenti, per introdurre elementi di differenziazione basati sul riconoscimento di impegno e meriti oltre che degli anni trascorsi dall’immissione in ruolo. Occorre quindi, prima di ogni altra cosa, un nuovo status giuridico dei docenti, che consenta incentivi economici basati sulla qualità della didattica, la formazione in servizio, il lavoro svolto per sviluppare e migliorare il progetto formativo della propria scuola”.

Anche a proposito delle attività individuali e collegiali di insegnamento dei docenti, il documento insiste molto sulla creazione di “banche ore” e sui “crediti didattici, formativi e professionali, per sostenere la scuola nel suo processo di miglioramento, legati al lavoro che i docenti svolgeranno rispettivamente in termini di (1) miglioramento della didattica, ma anche di (2) propria qualificazione professionale attraverso la formazione, e di (3) partecipazione al progetto di miglioramento della scuola”.

Di questi tre tipi di crediti, vorremmo focalizzare l’attenzione su quelli formativi, i quali, secondo il documento, “fanno riferimento alla formazione in servizio a cui tutti sono tenuti, alla attività di ricerca e alla produzione scientifica che alcuni intendono promuovere, e si potranno acquisire attraverso percorsi accreditati, documentati, valutati e certificati”.

È forse questo il fattore su cui insisterei e su cui si potrebbe delineare una possibile forte convergenza tra la posizione dell’ADI e quella del Ministero.

Mentre conservo perplessità sul fatto che i meccanismi premiali e incentivanti dovrebbero garantire, periodicamente, ogni 3 anni, ai due terzi (66%) di tutti i docenti di ogni scuola (o rete di scuole) il diritto ad uno scatto di retribuzione, soprattutto perché non si vede per quale motivo tale quota debba essere fissata preliminarmente.

Riserve le avrei anche sulla figura del docente mentor (il quale “segue per la scuola la valutazione, coordina le attività di formazione degli altri docenti, compresa la formazione tra pari, sovrintende alla formazione dei colleghi, accompagna il percorso dei tirocinanti e in generale aiuta il preside e la scuola nei compiti più delicati legati alla valorizzazione delle risorse umane nell’ambito della didattica”), perché, come abbiamo prima osservato, ci sembra meno valorizzato di quanto fosse il supervisore del tirocinio della SSIS, almeno per quanto attiene alla collaborazione con l’università.

Tornando alla questione di come valorizzare l’attività di ricerca dei docenti della scuola primaria e secondaria, richiamiamo brevemente alcune indicazioni contenute nella C. M. 120 del 4 novembre 2002:

“L’attività di ricerca va, quindi, incoraggiata e sostenuta anche fuori dell’ambiente scolastico, in modo da mettere in condizione il docente di poterla espletare nella migliore maniera possibile”. E in effetti, pur apprezzando le iniziative a riguardo finora intraprese dall’amministrazione, ci sembra che tale spirito non trovi ancora completa attuazione negli attuali strumenti legislativi.

Noi auspichiamo che il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca programmi tutti gli interventi possibili volti a promuovere e a conseguire i seguenti obiettivi:

1. Abolizione del comma 3 dell’art. 19 della Legge 30 dicembre 2010, n. 240 (“Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario”) per cui “non hanno diritto al congedo straordinario, con o senza assegni, i pubblici dipendenti che abbiano già conseguito il titolo di dottore di ricerca” e che subordina il congedo stesso alle “esigenze dell'amministrazione”. L’ultima previsione è da cassare totalmente, mentre per evitare abusi si potrebbe contemplare che si possa ottenere il congedo per un secondo dottorato, ma non per un terzo o un n dottorato. Sarebbe una mediazione equilibrata.

Inoltre, tale congedo straordinario per motivi di studio (quindi con maturazione del servizio e dell’anzianità di carriera) andrebbe esteso anche al docente (anche a tempo determinato fino alla fine dell'anno scolastico o delle attività didattiche) titolare di assegno di ricerca o di uno dei posti di ricercatore a tempo determinato previsti dall’art. 24 della predetta legge 240/2010.

Inoltre, dato che spesso accade che per completare le proprie ricerche e redigere la tesi molti dottorandi chiedano un anno di proroga, sarebbe auspicabile superare quanto disposto dalla circolare 15/2011 ed estendere anche all’anno di proroga il diritto al congedo straordinario.

2) Valutazione puntuale e priva di ambiguità del Dottorato di Ricerca nel percorso di accesso all’insegnamento nella scuola, con l’attribuzione di un congruo numero di CFU per chi frequenta il TFA e in futuro le lauree magistrali specificamente abilitanti)

Per rendere più omogeneo il percorso, sarebbe interessante introdurre per i dottorandi di una certa disciplina la possibilità di frequentare corsi di didattica disciplinare, con superamento dei relativi esami, già durante il dottorato. Tale attività sarebbe sicuramente di grande beneficio anche per chi proseguisse la propria carriera di docenza all’interno dell’Università.

3) Possibilità di prevedere figure di docenti semi-esonerati dal servizio a scuola, i quali - a parità di stipendio, a differenza dell’attuale part time, ma sulla falsariga del sistema dell’agrégation francese - si possano dedicare ad attività di ricerca e di insegnamento all’università o presso altri enti pubblici di ricerca e didattica. Questa possibilità è oggi prevista unicamente per i tutor coordinatori del TFA o delle facoltà di scienze della formazione (e prima ancora per i supervisori del tirocinio presso le SSIS), mentre potrebbe essere estesa a molti docenti in possesso del titolo di Dottore di Ricerca, che potrebbero così dedicare parte del proprio monte ore all’attività di ricerca e didattica universitaria (ovviamente con una precisa quantificazione dell’impegno didattico e di ricerca e con un’apposita rendicontazione alla fine di ogni anno). Per evitare che si possa abusare di tale possibilità, ci pare opportuno, in linea di principio, che i docenti che usufruiranno di questa riduzione d’orario rientrino in progetti di ricerca di rilievo e di interesse nazionale e internazionale, come, ad esempio i PRIN (Programmi di Ricerca di Interesse Nazionale) o il FIRB (Fondo per gli Investimenti della Ricerca di Base).

4) Oltre alla valutazione, ai fini della progressione di carriera dei docenti, di elementi oggettivi, quali pubblicazioni su riviste, contributi a libri di carattere scientifico o a manuali scolastici, comunicazioni a congressi, che attestino l’attività di ricerca e l’aggiornamento didattico, si ritiene fondamentale l’istituzione di speciali permessi, in aggiunta a quelli già previsti, per consentire a un docente chiamato a fungere da relatore ad un convegno di comprovata qualità scientifica e/o didattica di parteciparvi incondizionatamente (mentre oggi, ai sensi dell’art. 62, comma 7, del CCNL 2002-2005, non si fa sostanzialmente distinzione tra «la partecipazione ad iniziative di formazione come docente o come discente», per cui ai cinque giorni previsti per chi partecipi a un convegno come uditore non possono essere aggiunti altrettanti giorni per chi partecipi a un convegno come relatore). La precisa natura e durata di tali permessi andrà ovviamente definita nel dettaglio.

5) Istituzione di un tavolo di confronto nell’ambito delle iniziative finalizzate ad attuare i processi di riforma del sistema scolastico, in cui persone che hanno svolto per anni e continuano a svolgere attività di ricerca e di didattica anche al di fuori della scuola possono fornire sicuramente un contributo importante.

Lo spirito che anima le nostre proposte è quello finalizzato a creare strumenti legislativi per una seria e concreta integrazione del sistema scolastico ed universitario, al fine di poter rendere la scuola sempre più luogo privilegiato di formazione e di aggiornamento continuo.

Prof. Teodosio ORLANDO – dottore di ricerca in filosofia

Liceo classico statale “Dante Alighieri” – via E. Q. Visconti 13 – 00193 – Roma.
Tel. 0039-334-3748722.

(già coordinatore del Gruppo di lavoro sulla scuola dell’ADI – Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani)

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